Ieri sera il mio piccolo Sasà, poco prima di addormentarsi, mi chiede: “Papà, mi chiami Sasà?”.
Questo piccolo pensiero, che sembra nulla, racchiude nella sua semplicità tutta la nostra essenza. Tutto l’essere. Ciò che siamo e ciò che un giorno non saremo più.
Un nome.
Noi calabresi siamo molto affezionati ai nomi, abbiamo dato un nome a qualsiasi cosa e qualsiasi luogo. Prendete, se ne avete il tempo, una carta topografica. In Calabria, molto più che in altre regioni, ogni luogo ha un proprio nome e questo per essere conosciuto, ricordato. Attribuire un nome ad un luogo, un fiore, uno scarabeo è attribuirgli importanza. Riconoscerlo. Sapere che esiste.
In quella semplice richiesta: “Papà, mi chiami Sasà?” è racchiusa la volontà di essere riconosciuto. Di esistere.
Ricordo una volta in sala settoria.
Un naufragio, sette ragazzini stesi sui tavoli.
Quattro erano “senza nome”.
“Senza nome”.
Persone senza nome, il supremo oblio.
Una ragazza "senza nome" aveva, tra gli slip ben custodite perché non si bagnassero, le foto di tre bambini piccoli, forse i figlioletti. Foto senza nome. Anche loro e il loro ricordo condannati all’oblio.
Un nome racchiude in sé una vita, sentimenti, luoghi, profumi, persone. Noi siamo in quanto abbiamo un nome, senza siamo tenebra ed oblio.
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