C’è il paradiso nascosto nel mio Aspromonte e io l’ho visto.
Si scende ripidi lungo un costone di roccia dalle iridescenze ocracee, in mezzo al verde brillante delle felci chiazzate di giallo; i faggi e i castagni pieni dei loro frutti, ricci avidi ispidi, che lasciano il posto a rari fichi addomesticati e di nuovo inselvatichiti come l'irrequieto e perennemente insoddisfatto carattere calabro; poi i peri, quei peri che nati indomabili sono stati addolciti da pastori erranti affinché ogni forestiero, assetato ne potesse assaporare la polpa.
Si scende nel cuore del mio Aspromonte tra le assolate pietraie e le ginestre sfiorite, tra sprazzi d’ombra o sotto il sole che picchia, rimbalza e ripicchia. Abbaglia.
Il greto è vicino, come ingoiato dalle rocche che svettano al cielo. Siamo lì, enormi massi bianchi levigati nei secoli ci accolgono, il profumo dell’inula e poi della menta, gli equiseti e le mille farfalle dai cento colori: rosse, gialle, bianche, nere e libellule e grilli e cavallette e cicale. Sì, deve essere così l’ingresso dell’Ade, ne sono convinto.
Avanti, il rumore scrosciante sempre più forte; eccola la sento vicina, la posso vedere. L’acqua sfavilla di mille lucciole dal verde all’azzurro al blu più profondo, lì proprio lì dove non si tocca, attorno gli ontani e i faggi e i fichi, gli equiseti e la menta, le trote e i girini. Si deve essere così il paradiso. Né sono convito è lì nel mio Aspromonte.
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