Si sale lentamente verso Armo tra ulivi e mandorli, i tornanti sempre più stretti si abbarbicano ad un paesino sulle colline che sovrasta il reggino. E’ un paese di poche anime, forse oramai restano solo anziani e qualche giovane che a corto di denaro ha optato per rimanere allocato in una casa costruita dal padre e mai rifinita, per lo meno esternamente.
Conosco bene quei posti. Sono stati i posti che per diversi anni ho passato le mie giornate. Ho camminato tra quei terrazzamenti tutti uguali, ho visto le scarpate ai bordi delle strade stuprate da ogni genere di rifiuto. Da Gallina è un lento risalire attraverso contrade sempre uguali a se stesse, uguali a decenni di distanza. Forse qualche panificio in più. Stesse fontane, stesse chiese, stesse facce. Aristotele pensava che il tempo fosse la misura del cambiamento, se davvero fosse così lì a Puzzi, ad Armo il tempo deve essersi inceppato.
E se il tempo si ferma per i vivi, che (soprav)vivono uguali a se stessi a maggior ragione è fermo per i morti. Il cimitero di Armo è sempre lo stesso. Certo, sono state costruite cappelle più grandi, nuove, con marmi colorati quasi a voler colorare il grigio del tempo che non è più.
E’ una caratteristica di molti paesi dell’entroterra, i cimiteri sono collocati immediatamente prima di arrivare al centro del paese, prima di varcare le porte ad oggi immaginarie dei vecchi borghi.
Il cimitero di Armo è piccolo. Una piccola cancellata ti consente di entrare nel mondo dei morti, lì dove il tempo non esiste, si scompone, dove muore il tempo stesso.
Oggi ci sono stato, lì al cimitero di Armo. No per trovare un parente, un amico, un conoscente. Non penso serva dimostrare affetto per chi portiamo sempre dentro. Io al cimitero non ci vado mai. Non serve per chi hai amato.
Sono stato lì per e nel “cimitero dei migranti”.
Così lo hanno chiamato le testate giornalistiche Corriere, Repubblica, l’Unità. Dicono sia il primo in Italia e forse è vero.
Entri, percorri qualche metro tra i loculi ridondanti di fiori, quasi oppresso dall’altezza di queste case dei morti, fatte in cemento, posti lì a voler conservare l’inconservabile, l’effimero, un corpo marcescente che si prolunga verde, nero e giallo negli anni. Parenti fermi lì davanti a un pezzo di marmo e una foto.
Di colpo una radura, è lì il “cimitero dei migranti”. Dieci, venti, trenta, quaranta cumuli di terra, uguali. Poche croci, pochi nomi. Qui giace Myriam morta in mare recuperata dalla nave Iuventa. Qui giace Sconosciuto morto in mare recuperato dalla nave Iuventa. Qui giace Sconosciuta recuperata in acque internazionali e così via. Pochi fiori.
Nessuno fermo lì.
San Paolo diceva: “Dio sia tutto in tutti”. Io cambierei in “Dio è tutto in tutti” perché tutti siamo nulla e diventiamo nulla nel nulla infinito della morte. Un cambio di coniugazione ma è una sostanziale differenza.
Molti pensano che di migrazione si muoia, che siano i borghi, i paesi, le nostre città, la nostra cultura o quel che ne resta a morire. Ma questo non è vero, di migrazione muore solo chi emigra. Chi “Sconosciuto” è chiuso in sacco, con i quattro stracci che indossava e le foto di due bambini conservati negli slip, seppellito su una collina, in una paese di cui ignorava l’esistenza. Lì non lo cercherà nessuno, sarà per sempre “Sconosciuto”.
Quei bimbi cresceranno, se ne avranno la fortuna, e penseranno che “Sconosciuto” li abbia abbandonati, sia arrivato in Europa, abbia ricostruito la propria vita, cancellandoli. Non sapranno mai che “Sconosciuto” è morto in mare per rincorrere un sogno, una vita “normale” anche per loro. E’ affogato con nulla, è affogato cercando di proteggere quello che aveva di più caro. Due foto.
Una fotografia congela il tempo e dilata lo spazio, diventa l’unico bene di chi non ha più alcun bene.
Se vi capita saliteci al “cimitero dei migranti” e portateci i vostri figli. Leggetegli la storia di sconosciuto e dei suoi bambini, magari per una volta riuscirete a insegnarli qualcosa.
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12 Novembre 2017