Ci sono stato a Polsi qualche mese fa.
Lo spettro di quello che sarebbe successo riempiva già l’aria come un miasmo, il Santuario abbracciato da un manto di tela. Io l’avevo capito, l’avevamo capito. La Statua era già stata deportata. Era chiara l’intenzione. Era chiara.
Adesso si appalesa con parole di rammarico, melliflue che sottendono frasi impronunciabili, pensieri peccaminosi: lì, in mezzo alla Montagna, quella Statua non tornerà più. Spolvereranno mille scuse: le alluvioni, la strada, le frane. Non illudiamoci del contrario. E così la deportazione diventerà reale, palpabile a tutti. Il disegno dello spopolamento, dello svuotamento, della creazione di vuoti incolmabili si è svelato oggi ai più, ma non a noi che la Montagna la camminiamo.
E noi sappiamo che quando anche l’ultimo Nume tutelare verrà tradotto lontano non esisterà più un argine alla distruzione, alla menzogna, alla storia che storia non è. Il Genius loci sarà nudo, indifeso.
Ecco perché ci dobbiamo andare a Polsi, lo stesso, anche senza Statua, anche senza strada; andiamoci con le nostre gambe lungo le vie dei pellegrini da Reggio, da Cittanova, da San Luca, da Samo. Andiamoci in silenzio ma con il cuore percorso dai tumulti di mille legioni. Andiamoci al di là delle fazioni politiche, delle ideologie e delle prese di posizione. Andiamo noi popolo, intellettuali, guide, escursionisti, storici, naturalisti. Andiamoci insieme. Portiamola noi una statua, un’immagine, un’icona, un’effige. Andiamoci a Polsi, attraverso le vie del pellegrinaggio, a piedi, per non far morire Polsi e la nostra Madonna della nostra Montagna.